giovedì 31 ottobre 2013

News ed eventi dal mondo delle due ruote: Rude Riders 2013


by Ace Cafè Roma e Cani Sciolti Motorcyclists

Stavolta siamo arrivati in ritardo, anzi, non siamo arrivati proprio… Scherzi a parte, il 13 ottobre è andato in scena il Rude Riders 2013, run organizzato da Ace Cafè Roma e Cani Sciolti Motorcyclists. Anche se il tema Rude Riders sarebbe calzato a pennello, stavolta lo staff di MOTOeTUTTOilRESTO non ha potuto presenziare all’evento. Ci avvaliamo pertanto della testimonianza e del prezioso materiale fotografico fornito dagli amici del Dusty Wheels Racer per raccontarvelo. Il giro è partito dalla sede dell’Ace Cafè Roma è si è snodato in quel dei Castelli Romani, con tappa intermedia al lago di Castel Gandolfo e rientro al punto di partenza. Il tema che avrebbe dovuto caratterizzare il giro era brutti, sporchi e cattivi ma a quanto pare i partecipanti non si sono calati troppo nella parte per cui, a detta degli stessi, il run a tema si è trasformato in un normalissimo run tra amici, un po’disorganizzato, roboante e ugualmente divertente. Il che, a nostro parere, non è davvero una mancanza. Se partiamo infatti dal nome stesso, come fare ad aspettarsi organizzazione e compostezza da da un gruppo di racers rudi sporchi e cattivi -Hollister insegna…-E poi, vista la sonnolenza -per non dire il letargo- in cui i biker ed i racers romani sembravano caduti negli ultimi anni -e non smetteremo mai di ripeterlo perché proprio non ci va giù…- iniziative come questa sono sempre da ammirare ed il fatto che non ci si sia fatti crescere la barba per due settimane allo scopo di assomigliare a Dennis Hopper in Easy Rider, per farsi un giro sotto le finestre di Ratzinger, non ci sembra poi un gran peccato. Ad ogni modo, date uno sguardo alle foto e… Giudicate voi stessi!

Ivan Gemini     

















mercoledì 30 ottobre 2013

Custom, special e home made: Suzuki GSX-R 1100 streetfighter

GSX-R 1100 streetfighter by Suzuki
 
Parlando di special su base Suzuki GSX-R 110, ci sarebbe da passarci la notte. La stracciacopertoni di mamma Suzuki infatti è una tra le sportive del passato non troppo recente -per capirci, che oggi si comprano con pochi euro- maggiormente usata come base per special caratterizzate da un carattere scorbutico e da prestazioni degne di questo nome.
La GSX anni novanta vantava infatti un telaio in alluminio a doppia culla chiusa, che ricorda vagamente in stile quello celato sotto alla carena della RG 500 Gamma (Non conosci questo modello? Clicca e vai all'articolo!) e che, spogliato della carenatura, regalava un ottimo impatto estetico senza dover perdere troppo tempo in modifiche, avendo già di suo una linea piacevole e compatta, ben diversa dai vari perimetrali delle altre sportive dell’epoca i quali, pur indubbiamente validi, privati del vestito della festa risultavano un po’ troppo tozzi per una nuda cafèracer.
Quella presentata in queste foto ne è un esempio perfetto e, pur non essendo di recentissima realizzazione, rappresenta tutt’oggi quel che significa fare special genuine ed intriganti senza esser costretti a spendere un capitale e ad attingere da blasonati cataloghi after market. La ricetta è molto semplice ed è forse l’unica che vale un po’ per tutte le special, siano esse custom, cafèracer, chopper, bobbereccecc… Ossia, togliere tutto il superfluo e sostituire –o rendere più intrigante- l’indispensabile con una buona dose di ingegno e manualità. Ecco quindi che la cara vecchia Suzukona perde la carenatura e tutti i gadgets giudicati superflui. Il telaio ora in bella mostra riceve una sana lucidatura a specchio, così come avviene per cerchi, forcella e forcellone, mentre la coda di serie lascia il posto ad una unità prelevata di peso da una Kawasaki Z 650, opportunamente allungata e risagomata nonché fissata ad un telaietto artigianale.
La sella prende la via del cassonetto, ed al suo posto compaiono crudeli strip di neoprene, che regalano una linea filante e snella a tutto l’insieme -anche se ci chiediamo sinceramente cosa possano regalare al fondoschiena del pilota…-. Il manubrio standard lascia il posto ad un elemento originariamente appartenuto ad una V-Max, ora montato su riser Virago, mentre l’ottica anteriore è composta da un doppio elemento circolare sovrastato da un mini cupolino di fattura artigianale, così come il cortissimo fender anteriore. Al posteriore troviamo invece un portatarga inesistente e due ottiche bullet style che fungono da luci posteriori.
La verniciatura by Carrozzeria Magic Car, realizzata su grafica by Angelo Simonin, è una di quelle che si ama o si odia, ma in entrambi i casi che non lascia indifferenti. Motore e componentistica meccanica restano di serie, scelta che garantisce un’affidabilità stock che di certo non guasta. In poche parole, una moto genuina e di gusto, che permette al proprietario di scorrazzare con stile e di farsi notare al semaforo senza massacrare il portafoglio. Non erano proprio queste le prerogative principali delle prime self made bike?
 
Andrea Mariani
fonte: Extreme Magazine
 

lunedì 28 ottobre 2013

Dossier: Suzuki RG 500 Gamma

Suzuki RG 500 Gamma: purosangue pronto-gara per girare in strada
Seconda tappa della serie “Bare Volanti”. Anche se, come già detto nell’articolo dedicato alla Yamaha RD 500 LC(Non conosci il modello? Clicca e vai all'articolo), di Bara Volante ce n’è una sola e porta il marchio Kawasaki, continueremo ad utilizzare il nomignolo non troppo appropriato anche per la diretta concorrente della bestia dei tre diapason, la Suzuki RG 500 Gamma. Anche per l’RG 500, arrivata con appena un anno di ritardo sulla rivale, il cuore del progetto è il quattro cilindri a due tempi, stavolta disposti in quadrato, che vanta prestazioni già sulla carta superiori a quello dell’RD. Discendente diretta dell’ RG 500 Gamma da competizione del 1982, vincitrice del titolo mondiale con Lucchinelli prima e Uncini dopo, l’RG Gamma stradale venne presentata all’IFMA di Colonia ed arrivò nei concessionari nel 1985.


Come appariva chiaro anche dai dati nudi e crudi, l’RG Gamma si presentò alla sfida con la Yamaha con qualche numero in più, suscitando quindi ancor più sensazione di quanto aveva fatto la rivale meno di un anno prima: motore strabordante per potenza, telaio e freni presi di peso dalle competizioni, look identico alle sorelle da GP ed una buona dose di aura da fantascienza che di certo non guastava. In più, con ben 95 cv alla ruota a 9.500 giri, con un rapporto peso/potenza di ben 190 CV/litro, una coppia di 71,3 Nm a 8.000 giri, una velocità massima di 240 km/h ed un tempo sul quarto di miglio prossimo agli 11.4 secondi, si poteva parlare sul serio di moto da pista a cui era casualmente stata applicata una targa.
Naturalmente, ogni medaglia ha il suo rovescio e la battaglia con l’RD 500 non vide mai un vincitore assoluto in quanto le maggiori prestazioni della Suzuki si pagavano con una guida molto più nervosa, una reattività più brusca e difficile da prevedere per i meno avvezzi ed una complessiva scomodità che rendeva la Gamma più difficile da gestire e quindi meno appetibile per coloro che, pur avendo un buon manico, preferivano farsi notare al semaforo piuttosto che puntare centesimi di secondo nella guida al limite. Come per la rivale, però, stiamo sempre parlando di una moto di concezione moderna e -per l’epoca- ultratecnologica, per cui lontana anni luce dai razzi fumogeni che portarono pre primi il fastidioso nomignolo.
La Gamma vantava infatti una ciclistica molto raffinata, costituita da un telaio a doppio trave in alluminio, forcella regolabile con sistema anti-dive, sospensione posteriore Full-Floater regolabile nel precarico. In forze all’impianto frenante troviamo un doppio freno a disco anteriore da 260 mm ed un singolo posteriore che svolgono in maniera ottimale il proprio lavoro, mentre le coperture 110/90-16″ all’anteriore e 120/90-17″ al posteriore, viste con gli occhi di oggi, appaiono piuttosto comiche ma conferiscono alla moto una agilità ed una stabilità più che adeguate alle prestazioni. Il look non ha certo bisogno di essere commentato. Anche a distanza di trent’anni, e forse oggi più di allora, la linea della Gamma è qualcosa di meraviglioso e ci si sente Lucchinelli anche fermi al semaforo all’angolo dell’ufficio. Certo, sia la Gamma che l’RD oggi hanno da confrontarsi con un limite molto serio all’utilizzo quotidiano: un consumo che davvero è testimone di quanto questi motori appartengano ormai ad un’altra epoca.
Però, quando scatta il verde e stacchiamo la frizione, l’avantreno si alza e resta su fin quando vogliamo –e spesso anche quando non vogliamo- mentre una scia azzurrognola lascia dietro indelebile -e acre- la testimonianza del nostro passaggio -e anche qualche insipida sportivetta dei giorni nostri- quei dieci euro in più regalati al benzinaio non sono certo una tragedia…


Andrea Mariani
Scheda tecnica:

motore 4 cilindri 2 tempi in quadrato, 498 cc (56×50,6 mm,) valvola risonatrice allo scarico SAEC -Suzuki Automatic Exhaust Control- quattro carburatori Mikuni da 28 mm, 95 CV a 9.500 giri, 71,3 Nm a 8.000 giri, velocità massima 239 km/h, accelerazione 11.4 s/400 m.




telaio a doppio trave in alluminio, forcella regolabile con sistema anti-dive, ammortizzatore posteriore Full-Floater regolabile nel precarico, doppio freno a disco anteriore da 260 mm, gomme 110/90-16″ e 120/90-17″, peso 154 kg a secco.




martedì 22 ottobre 2013

Serie TV: guardiamo per voi... Homeland Nuova Stagione


Homeland Nuova Stagione: ancora intrighi e attentati per Carry e Brody

Ripartiamo da dove eravamo rimasti con Homeland, anche per chi magari volesse approcciarsi a questa serie, che sta riscuotendo un ottimo risultato in tutto il mondo. Homeland gira intorno alla vicenda dell'agente CIA Carry Mathison e all'ex marine Nicholas Brody. Brody è rimasto prigioniero di una cellula di Al-Qaeda per ben otto anni. Periodo nel quale si è convertito all'Islam e non solo. Nella prima stagione Carry ha fiutato la conversione di Brody e sospetta fortemente sia lui uno dei terroristi che sta preparando un attacco negli USA. La stagione però si è chiusa con lei che viene licenziata dalla CIA e va a fare delle pesantissime cure psichiatriche, fra cui l'elettroshock. Insomma licenziata e ritenuta pazza per aver avuto ragione.

Nella seconda stagione la donna riesce a prendersi la sua rivincita, in Libano viene trovata una memoria da telecamera in cui c'è registrato un messaggio di Brody il quale spiega i gesti del suo attentato suicida. Chi ha visto la prima stagione sa che poi l'attentato Brody non lo ha fatto , ma il video è una prova schiacciante della sua colpevolezza e riabilita in pieno la figura di Carry. Nella terza stagione vediamo quindi la CIA costringere l'ex marine Brody a collaborare con loro per arrestare la mente che c'è dietro a tutta la faccenda, Abu Nazir, il ricercato numero uno da quando Bin Laden è stato ucciso. Dopo tanti colpi di scena che tengono la tensione sempre ad altissimi livelli, si riesce finalmente ad uccidere Abu Nazir e bloccare un attentato. Carry che sta per essere riassunta dalla CIA decide che non accetterà il lavoro per poter stare con Brody.
I due sembra che possano finalmente commemorare il loro sogno d'amore. All'ex marine in cambio della collaborazione era stata promessa totale impunità per il tentativo di attentato a cui poi lui stesso aveva rinunciato. E qui viene il colpo di scena, avvengono due cose contemporaneamente, in una nave militare si celebra il funerale di Abu Nazir prima di gettarne il corpo in acqua, proprio mentre Carry e Brody vanno al funerale del vicepresidente Walden. Durante la commemorazione esplode una bomba nell'auto di Brody, che fa una strage. Carry decide di fuggire perché nessuno crederebbe all'innocenza di Brody e partono per il Canada. Intanto, nelle televisioni non si sa come inizia ad esser trasmesso il video di confessione che Brody aveva girato prima di fare l'attentato della prima stagione. E qui ci fermiamo. In attesa di vedere Carry cercare di capire chi ha incastrato Brody, o giungere alla conclusione secondo la quale, alla fine dei conti, non possa veramente esserci  lui dietro l'attentato! Insomma, ancora tante gatte da pelare ed emozioni a non finire...


Gimmi Cavalieri



lunedì 21 ottobre 2013

Cinema: guardiamo per voi... Diana, la storia segreta di Lady D.




Diana, la storia segreta di Lady D.
 
Il film Diana-La storia segreta di Lady D. di Oliver Hirschbiegel è basato sul libro di Kate Snell "Diana. L’ultimo amore segreto della principessa triste". Uscito nelle sale italiane il 3 ottobre, narra gli ultimi due anni di vita della principessa che ha fatto tanto sognare tutto il mondo. In questo lasso di tempo Diana Spencer si fece trascinare dalla passione per il cardiochirurgo Hasnat Khan, il quale però non amava la luce della ribalta e dei flash troppo invadenti. Luci che decretarono la fine del rapporto tra l'uomo e la principessa, e probabilmente le stesse che decisero il destino di Lady D. assieme a quello di Dodi Al-Fayed, nel modo tristemente salito agli onori della cronaca. L’attrice che interpreta il ruolo della Principessa di Galles è Naomi Watts, che ha dovuto giocare molto sull’immedesimazione, in quanto non può contare troppo sulla somiglianza. Certo, bionda è bionda e ha gli occhi blu, ma qui le analogie finiscono. Quindi l'attrice ha meticolosamente studiato i movimenti e la gestualità nei filmati dell’epoca, ma questo ha portato ad una "resa" non troppo ottimale.


 Infatti, durante il film si coglie una familiarità con Diana solo durante la ripetizione di video pubblici, come nella celebre intervista nella quale la principessa dichiarava che il suo era un “matrimonio troppo affollato” o quando, davanti ai giornalisti di mezzo mondo, attraversò un campo parzialmente disseminato di mine anti-uomo. Inoltre l’attrice, a dire di molti, non è riuscita a esprime quel profondo turbamento che ha fatto incoronare Diana come “la principessa triste”. La Watts ha spesso -forse troppo- intervallato mere smorfie e visi imbronciati a frequenti piagnucolii, cosa che,  per gli Inglesi più affezionati al ricordo di Lady D, ha bollato questa breve biografia come niente più di una soap-opera, basata su imbarazzanti dialoghi di una principessa che viene dipinta come un’adolescente instabile ed eccessivamente egoista.
Chissà cosa ne avrebbe pensato la principessa del popolo se avesse visto attraverso lo schermo la sua vita… Probabilmente avrebbe accennato come al solito un composto sorriso, pronto a nascondere quell’ultimo, vero segreto.

Alice Nara
 
 


 

sabato 19 ottobre 2013

Dossier: Yamaha RD 500 LC


RD 500 LC by Yamaha: missile terra aria dagli anni ‘80
Quando si pensa a nomi come Yamaha RD 500 LC, tra noi motociclisti diviene automatica un’associazione mentale al soprannome Bara Volante. In realtà, le prime e uniche Bare Volanti furono la Kawasaki H1 500 e la sorella maggiore 750,  missili veri e propri, con strabordanti motori tre cilindri due tempi imbrigliati in telai quasi ridicoli equipaggiati con freni e sospensioni degni di un 125, che furono sogno ad occhi aperti e causa di decesso per molti giovani degli anni ’70. Per la sia pur discendente di genere Yamaha, la leggenda non ha molto a che vedere con la realtà. 


Certo, l’ RD 500 non è propriamente una moto tranquilla, con 227 km/h di punta massima ed un tempo di 11,955 sul quarto di miglio. Sia l’erogazione del motore che le qualità di telaio e freni,  ne fecero all’epoca del suo esordio una moto fantascientifica per prestazioni,  look -era pressoché identica alla moto da GP di Kenny Roberts Senior- e soluzioni tecniche, ma per guidarla bastava un sano “manico” da esperto e non serviva necessariamente una buona percentuale di pazzia. Certo, discorsi del genere ad oggi fanno un po’ sorridere visto che giriamo abitualmente con mostriciattoli da 150 cv per 150kg, o che motorette utilitarie da neopatentati come la Kawasaki ER 5 (non conosci questo modello? Clicca e vai all'articolo!) viaggiano tranquillamente nell’ordine dei 50 cv. Ma ricordiamoci che, nell’epoca d’oro di cui stiamo parlando, una media sportiva poteva essere rappresentata tranquillamente dalla Honda CX 500,(non conosci questo modello? Clicca e vai all'articolo!) un bel ferro da 50 cv per più di duecento kg in ordine di marcia, per cui immaginate lo stupore che suscitò Yamaha quando, nel 1983, presentò la RD 500 LC, quattro cilindri a v raffreddati a liquido, due tempi ad ammissione lamellare mista, accreditata di 87,17 cv a 10.250 g/min e di una coppia pari a  6,17 kgm a 9.250 giri.
 La chicca più interessante era senza dubbio il sistema di valvole allo scarico YPVS -Yamaha Power Valve System- che ottimizzava la curva di erogazione del motore a tutti i regimi, garantendo prestazioni pari se non superiori a quelle dei modelli da 750 cm³ con motore a quattro tempi,  mentre la cattiveria che suggerivano i quattro scarichi ad espansione -anche se due si notavano poco, nascoste sotto la carenatura ai lati della sella- suscitava sensazione ad una generazione abituata ai classici tromboncini cromati. Per dirla in due parole, un’astronave.
 Oggi, l’RD è comunque un bel mezzo, che regala sensazioni di guida sportiva d’altri tempi e divertimento assicurato grazie ai suoi numeri, ad un telaio a punto, ad un impianto frenante all’altezza della situazione e ad una dolcezza d’erogazione -dolcezza si fa per dire- veramente impensabile per un V4 due tempi. Anche il comportamento su strada appare sostanzialmente neutro, malgrado l’avantreno tenda sempre a prendere il volo in accelerazione ed il posteriore a scodare spalancando il gas in uscita di curva, ma ad una signora di trent’anni si perdona questo ed altro. Fanno un po’ sorridere le coperture, veramente stonate all’occhio odierno per una sportiva, ma una volta in sella fanno quello che devono ed, anzi, viene quasi da chiedersi se oggi non sprechiamo un bel po’ di caucciù… 
L’RD attualmente è diventata un vero e proprio mezzo di culto, sia per le caratteristiche innate sia per la sensazione suscitata al momento della sua apparizione, e nutre a livello europeo una folta schiera di fedelissimi, raggiungendo anche quotazioni notevoli. Certo, all’epoca il missile rossonero -o biancorosso, a seconda dei gusti- soffriva un po’ la concorrenza di un altro missile per eccellenza, la Suzuki RG 500 Gamma (Non conosci questo modello? Clicca e vai all'articolo), che parlando di numeri puri, in realtà ne aveva qualcuno di più. Era anche molto più scorbutica e meno appariscente, però -e a nostro parere leggermente più goffa- e questo probabilmente fu il motivo che non decretò affatto un “passaggio di consegne” ma anzi innescò un accesissimo duello da bar tra gli estimatori dell’una e dell’altra… Per noi, la scelta sarebbe molto semplice… Metterle entrambe in garage!

Andrea Mariani
Scheda tecnica:

Lunghezza 2.085, larghezza 705, altezza  1.135 mm -sella: 780 mm-, interasse: 1.375 mm, peso a secco 200 kg, serbatoio da 22 l di cui 5 di riserva.
Motore: quattro cilindri due tempi a V di 50º, con cilindri superiori a 5 luci e inferiori a 4 luci e lubrificazione separata, raffreddamento: a liquido, cilindrata 499 cm3 (Alesaggio 56,4 x Corsa 50,0 mm), distribuzione lamellare mista con ammissione superiore nei cilindri e inferiore nel carter, alimentazione: 4 carburatori Mikuni VM 26SS.
Potenza: all'albero 87,17 CV a 10.250 g/min
Coppia: all'albero 6,17 kgm a 9.250 g/min
Rapporto di compressione: 6,6:1 (a luci chiuse)
Frizione: Dischi multipli in bagno d'olio
Cambio: a 6 rapporti in cascata e innesti frontali
Trasmissione: primaria con ingranaggi a denti dritti 31/69 (2.225), secondaria con catena a giunti torici 15/38 (2.533)

Telaio: doppio trave e doppia culla chiusa scomponibile in tubi d'acciaio a sezione rettangolare, con telaietto saldato.
Sospensioni: anteriore: forcella teleidraulica Kaiaba con foderi in alluminio e steli 37 mm con sistema anti-affondamento; Posteriore: forcellone oscillante in acciaio e monoamortizzatore oleopneumatico regolabile in 5 posizioni di precarico
Freni: anteriore a doppio disco da 267 mm;  posteriore a disco singolo da 245 mm
Pneumatici: anteriore 120/80V16; posteriore 130/80V18.
Consumo medio: 11,5 km/l

giovedì 17 ottobre 2013

Prova: Triumph Thruxton


Triumph Thruxton: Cafè Racer pronta consegna.

Triumph Thruxton, ovvero, cafè racer chiavi in mano. Ed era proprio questa l’idea di mamma Triumph quando presentò la Thruxton, nome ripreso dal celebre tracciato su cui la Triumph diventò leggenda. Forse l’idea nacque proprio dal fatto che le care Bonneville di seconda generazione, belle paciose con il loro manubrione ed il comodo -ma non troppo sportivo- sellone monolivello venivano sempre più spesso reinterpretate dai legittimi proprietari in chiave cafè racer, che preferivano mezzi manubri, comandi arretrati, selle monoposto  e codini vintage racer alle istallazioni di serie.



Quindi, perché non fare direttamente una cafè racer made  by factory direttamente, ispirata alle moto che sconquassarono la morale ed i timpani dei poveri mortali che abitavano a ridosso della North Circular in quei mitici anni sessanta che i mitici rockers inglesi condannarono ad un decennio buono d’insonnia con i loro scarichi aperti. La Thruxton è una sportiva classica, con il tradizionale bicilindrico 850 -in realtà 865cc- , manubrio basso, posizione di guida sportiva, cerchi a raggi da 18 pollici e silenziatori a megafono rialzati e puntati verso l’alto.
Il motore non sarà certo un mostro di potenza, se paragonato alle moderne ipersportive, ma 69 cavalli di razza a 7.400 giri permettono di divertirsi alla grande e di viaggiare con stile, invece che con il cronometro. L’estetica non ha bisogno di presentazioni, per cui ci limitiamo a sottolineare il perfetto stile anni '60, le cromature imperanti, i cerchi a raggi da 18” anteriore e 17” posteriore, la livrea corsaiola e i due silenziatori a megafono cromati in puro stile Ace Cafè.
Il comportamento su strada è sostanzialmente neutro. La moto va via tranquilla, così come tranquille sono le reazioni alle varie sollecitazioni. In poche parole, si guida facilmente e rimanda un piacere che poche moto sanno dare. Certo, volendo spingerla al massimo emergono i limiti di una forcella di tipo tradizionale -anche se regolabile nel precarico- e della coppia di ammortizzatori posteriori -anch’essi comunque regolabili- Il telaio però non è affatto male e nel complesso la Thruxton supera abbondantemente l’esame anche in frenata, grazie al disco flottante -però singolo-da 320mm ed alla pinza flottante Nissin a 2 pistoncini all’anteriore, mentre il posteriore da 255mm pur facendo il suo dovere risulta lievemente sottodimensionato vista la mole della moto. Per chi sceglie una Thruxton, però, non sono i numeri precisi e freddi a fare la differenza, che perdono importanza di fronte al girare su un qualcosa che più che una moto è una testimonianza di tempi gloriosi, un concentrato di stile, storia e, perché no? Di tecnologia moderna che rendono piacevole la guida, attirano l’attenzione al semaforo e… Permettono di girare la chiave e partire, cosa che le care vecchie Bonnie non garantivano davvero...

Andrea Mariani





Scheda tecnica:
Motore: Bicilindrico parallelo, raffreddato ad aria, DOHC, manovellismo a 360º
Cilindrata: 865cc
Alesaggio/Corsa: 90 x 68mm
Scarico in acciaio 2 in 2
Rapporto finale a catena
Frizione multidisco in bagno d'olio
Cambio a 5 marce
Capacità serbatoio olio: 4.5 litri
Telaio a culla in tubi d'acciaio
Forcellone in acciaio
Cerchi: Anteriore in alluminio, 36 raggi, 18 x 2.5"; Posteriore  40 raggi, 17 x 3.5"
Pneumatici: 100/90 18 e 130/80 R17
Sospensioni: Anteriore KYB 41mm, escursione 120mm, precarico regolabile; Posteriore: 2 ammortizzatori KYB, precarico regolabile, escursione 106mm
Freni: Anteriore a disco da 320mm, pinza flottante Nissin a 2 pistoncini; Posteriore a disco singolo 255mm pinza flottante Nissan a doppio pistoncino
Dimensioni : Lunghezza 2150mm; Larghezza (manubrio)830mm; Altezza 1095mm; Altezza sella 820mm; Interasse 1490mm.
Capienza serbatoio: 16 litri
Peso in ordine di marcia: 230 kg
Potenza massima: 69CV a 7.400 giri
Coppia massima 69Nm a 5.800 giri